Paradossalmente in entrambi i convegni sono state presentate come capaci di mettere in moto gli studenti modalità didattiche assai differenti, si potrebbe dire a tratti contradditorie. Eppure nella maggior parte dei casi efficaci a favorire l’apprendimento sia di conoscenze disciplinari sia di aspetti importanti della personalità, i cosiddetti cognitive e non cognitive skills, insomma. Quale allora il fil rouge di tali esperienze? Si potrebbe sinteticamente dire il metodo da esse seguito: un intelligente, appassionato, insistente realismo.
Un realismo che non si riduce a pragmatismo, di cui soffre la didattica quando è attenta solo agli aspetti pratici e si illude di poter istruire ed educare addestrando gli studenti a replicare delle procedure. Ogni insegnante sa che quanto non è appreso teoricamente non diviene realmente parte del patrimonio dello studente: ciò che non è stato compreso, capito, non può dirsi esperienza dello studente. L’esperienza non coincide infatti con il provare qualcosa, ma con il divenirne consapevoli, con il comprendere e giudicare ciò che si è provato.
Essere realisti non significa neanche assumere un atteggiamento rinunciatario. Una didattica non è realista perché l’insegnante decide di facilitare i contenuti e abbassare gli obiettivi per non demoralizzare lo studente. Qualsiasi studente, qualunque sia la sua capacità di apprendimento, ha bisogno di fare un’esperienza conoscitiva coinvolgente perché piena di senso e di bellezza. La portata della sua ragione infatti non coincide con la somma delle sue abilità.
Realismo non è sinonimo di positivismo: non è l’accumulo di dati irrelati che può muovere lo studente a interessarsi agli oggetti di conoscenza, bensì la scoperta che nella realtà vi è una “verticalità” che sola ha il potere di attirare ragione e affezione e di muovere la libertà dei giovani, come hanno messo in luce magistralmente alcune relazioni ai convegni, in primis quelle dei professori François-Xavier Bellamy e Giorgio Vittadini al convegno della Cdo opere educative.
Una didattica realista si esprime allora innanzitutto nella capacità dell’insegnante di tenere in dovuta considerazione i fattori della relazione educativa: sé stessi, la propria disciplina, lo studente, il contesto. Sé innanzitutto, perché occorre essere consapevoli di chi si è, di che cosa si afferma con parole e azioni, di che cosa è nelle proprie corde e cosa no; per essere autorevoli, cioè degni di essere ascoltati e seguiti, occorre credere in quello che si dice e competenti in quel che si fa. La propria disciplina, le domande con cui interroga gli oggetti di conoscenza, le parole e i concetti essenziali per introdursi in essa, i modelli teorici cui fa riferimento, i testi e gli strumenti che meglio possono presentarla agli studenti; occorre insomma riappropriarsi continuamente della propria disciplina per divenire maestri. Gli studenti, i loro desideri, le loro storie, ciò che realmente percepiscono delle parole dell’insegnante, i loro pensieri, le loro categorie, le loro difficoltà; perché per muovere l’interesse e la libertà di una persona è necessario che questa si senta innanzitutto ascoltata, presa sul serio. E infine il contesto in cui si lavora: non esistono strategie sempre valide e ovunque attuabili nell’insegnamento, le modalità non possono che essere flessibili, in base alle risorse che si hanno, ai vincoli imposti, ai tempi a disposizione.
Un simile realismo nella didattica, di cui si è avuta ricca testimonianza nei due convegni, non può che nascere dalla certezza che la realtà abbia senso e che sia possibile accompagnare i propri studenti alla sua scoperta.
Raffaela Paggi, martedì 28 febbraio 2017
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